Accade spesso che uno o anche più familiari di un imprenditore svolgano attività di lavoro nella sua impresa e qualche volta, ma invero piuttosto raramente, tra l'imprenitore e il familiare viene stipulato un vero e proprio contratto di lavoro. Talvolta l'impresa familiare viene costituita mediante dichiarazioni espresse o anche solo con un comportamento concludente. Per lo più il rapporto viene prestato di fatto, senza che il rapporto sia regolato contrattualmente.

Lo studio legale Sbressa Agneni di Borgomanero in provincia di Novara si trova spesso a tutelare coniugi, per lo più donne, che hanno lavorato anche per lunghi anni presso la società del marito e poi improvvisamente si ritrovano a casa senza lavoro e prive di reddito perchè cacciate senza motivo dall'attività contestualmente alla fine del rapporto coniugale e a ridosso del procedimento di separazione.

Ebbene, per queste ipotesi il legislatore ha dettato una disciplina che, ispirandosi ai principi di equità e di mutua solidarietà, fa partecipare i collaboratori familiari ai profitti dell'impresa e ad alcune decisioni circa il suo esercizio. Trattasi, quindi, di una disciplina protettiva di legge che opera anche in favore del familiare che presti la sua attività di lavoro nella famiglia.

L'articolo 230 -bis del codice civile definisce come impresa familiare quella a cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, o gli affini entro il secondo, e dispone che, salvo quando sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha i seguenti diritti:

a) il diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia. Occorre osservare che il contenuto economico di questo diritto non è commisurato alla quantità e qualità del lavoro, bensì alla condizione patrimoniale della famiglia, con una regola ispirata non a un concetto di scambio,bensì al principio dell'uguale dignità nella comunità familiare. Va da sé che il coniuge e i figli che non siano ancora in grado di provvedere a se stessi hanno già ad altro titolo il diritto al mantenimento;

b) il diritto di partecipare agli utili dell'impresa in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato;

c) il diritto di partecipare, sempre in prorpozione della quantità e qualità del lavoro prestato, agli incrementi dell'azienda, sia che essi consistano in beni acquistati mediante il reivestimento di utili, sia che consistano nell'aumento di valore dell'azienda, anche per quanto riguarda l'avviamento.

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Occorre evidenziare che questa disciplina giuridica non costituisce un rapporto di tipo societario rilevante nei confronti di terzi, ma solo diritti di credito dei familiari verso l'imprenditore, senza interferire con la struttura giuridica e l'attività dell'impresa che resta individuale.

Quindi, la disciplina dell'articolo 230-bis vale solo nei rapporti interni tra familiari ed imprenditore, che rimane unico titolare dell'impresa e solo responsabile per le obbligazioni contratte nell'esercizio di essa. In pratica, i familiari non sono soci, ma creditori del titolare dell'impresa.

Infine, si fa presente che il diritto di quota del familiare sugli utili reinvestiti e sugli incrementi dell'azienda può essere liquidato in denaro quando la sua partecipazione all'impresa abbia termine per cessazione della sua prestazione lavorativa o in conseguenza dell'alienazione dell'azienda. Il diritto di partecipazione è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di altri componenti della famiglia, con il consenso unanime di tutti i partecipanti all'impresa familiare.

Per saperne di più o per avere informazioni legali su questo argomento, non esitate a contattare telefonicamente o tramite mail gli avvocati matrimonialisti dello studio legale Sbressa Agneni di Borgomanero in provincia di Novara, che risponderanno ad ogni domanda, dubbio o chiarimento relativo al Vostro caso.