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Questo articolo è stato scritto:

Avv. Alessandra Sbressa Agneni

Autrice per Giuffrè Editore

Autrice di opere per UTET Editore

Autrice di opere per CEDAM Editore

Iscritta all'Albo degli Avvocati di Verbania

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Così si è pronunciata la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n° 43452/2009 stabilendo che, chiunque sottrae della merce all'interno dei centri commerciali risponde di furto aggravato, in quanto si tratta di edifici che, anche se diversi dall'abitazione, sono equiparabili alla privata dimora.

Così ha stabilito la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n° 43452/2009 secondo la quale risponde di furto aggravato chiunque sottrae della merce all'interno dei centri commerciali in quanto trattasi di edifici che, anche se diversi dall'abitazione, sono equiparabili alla privata dimora.

Con questa sentenza la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha annullato la decisione della Corte d'Appello di Roma che aveva condannato per il reato di furto due persone che avevano rubato degli oggetti in un centro commerciale.

Nell'ambito del giudizio di primo grado, i due imputati, che si erano impossessati di alcuni oggetti e precisamente due magliette, un pantalone e due felpe, prelevandoli all'interno di un esercizio commerciale, dopo aver asportato dei dispositivi antitaccheggio, erano stati condannati dal Tribunale di Civitavecchia per il reato di cui all'art. 624 bis del codice penale, introdotto dalla Legge n° 128 del 2001, che punisce “chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora”.
Contro tale decisione, gli imputati proponevano appello e la Corte d'Appello di Roma, in secondo grado, riconduceva il fatto nell'ambito del furto semplice, ritenendo che la novella norma non potesse applicarsi nel caso di specie, in quanto riguardante unicamente i furti commessi in abitazione e quelli con strappo, e non quelli compiuti in locali diversi dall'abitazione.
Avverso tale sentenza, il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Roma presentava ricorso per Cassazione confermando quanto affermato dai giudici di primo grado che correttamente avevano ritenuto che dovesse considerarsi luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora qualsiasi luogo nel quale le persone si trattengono per compiere, anche in maniera transitoria e contingente, atti della loro vita privata, come studi professionali, stabilimenti industriali ed esercizi commerciali.
La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, annullando la sentenza della Corte d'Appello di Roma e rinviando di nuovo la questione davanti alla Corte d'Appello per un nuovo esame, ha affermato che, prima dell'introduzione della nuova figura di reato, l'art. 625 del codice penale, comma 1, n. 1, in tema di aggravanti del reato di furto, faceva riferimento all'introduzione o al trattenimento “in un edificio o in un altro luogo destinato ad abitazione”; con l'entrata in vigore dell'art. 624 bis c.p. da parte della Legge n. 128/2001, sono previste autonome figure di reato con riguardo al furto commesso “mediante introduzione in un edificio o in un altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa”. Di conseguenza appare evidente l'ampliamento della portata della previsione, facendosi ora riferimento alla “privata dimora” piuttosto che “all'abitazione”.
Si precisa che secondo quanto la Cassazione ha più volte potuto rilevare, la nozione di “privata dimora” è sicuramente più ampia rispetto al concetto di “abitazione” e comprende qualsiasi luogo sia destinato permanentemente o transitoriamente allo svolgimento della vita privata o delle attività lavorative, culturali o professionali (ex plurimis, Cass. Sez. IV, 16 aprile 2008, n. 20022; Cass. Sez. V, 18 settembre 2007, n. 43089; Cass. Sez. IV, 26 febbraio 2003, n. 18810; Cass. Sez. IV, 17 settembre 2003, n. 43671; Cass. Sez. I, 9 maggio 1979, n.8458; Cass. Sez. V, 28 ottobre 1983, n. 10331). In tale ambito rientrano, quindi, anche gli esercizi commerciali, dovendosi, perciò, ritenere la configurabilità del reato di cui all'art. 624 bis c.p., come nel caso di specie in cui in origine era stato contestato.
La Suprema Corte ha, dunque, annullato la sentenza impugnata e, qualificato il fatto contestato come violazione dell'art. 624 bis c.p., e art. 625 c.p. n.2, ha rinviato ad altra sezione della Corte d'Appello di Roma.

 

 

 

Articolo dello Studio Legale Sbressa Agneni

Articolo pubblicato nella sezione " Persona e Danno "

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Scritto da AVV. SBRESSA AGNENI

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