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Questo articolo è stato scritto:

Avv. Alessandra Sbressa Agneni

Autrice per Giuffrè Editore

Autrice di opere per UTET Editore

Autrice di opere per CEDAM Editore

Iscritta all'Albo degli Avvocati di Verbania

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Con questa recente sentenza (n° 39989/08), la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha escluso la responsabilità della  convivente di una persona che detiene sostanze stupefacenti in casa, affermando che la stessa non può essere considerata come concorrente nel reato.

Così si è pronunciata la Sesta Sezione Penale della Cassazione (sentenza n° 39989/08), che ha annullato con rinvio una sentenza della Corte d'Appello di Bologna che aveva condannato una donna per detenzione di sostanze stupefacenti in concorso con il convivente, in quanto, a parere della Corte, il comportamento della signora, che era ben consapevole dell'attività di spaccio esercitata dal compagno e non faceva nulla per impedirla, costituiva reato a titolo di concorso personale.
 La Suprema Corte, con la sentenza n° 39989/08, ha invece, ritenuto che “in tema di detenzione illecita di sostanze stupefacenti nella casa coniugale, deve essere escluso il concorso del coniuge ( e dello stesso convivente more uxorio) ex art. 110 c.p. ogniqualvolta si versi in un quadro connotato da semplice comportamento negativo di quest'ultimo (marito-moglie-convivente) che si limiti ad assistere in modo inerte alla perpetrazione del reato ad opera del “partner” e non ne impedisca od ostacoli in vario modo l'esecuzione, dato che non sussiste in tale caso un obbligo giuridico di attivarsi in qualche modo per impedire l'evento”.
 Secondo consolidata e risalente giurisprudenza, affinché ricorra la fattispecie di concorso di persone nel reato, non è sufficiente un comune interesse accompagnato da vincoli interpersonali o un ruolo di virtuale adesione al delitto, ma è necessario un contributo effettivo e concreto alla realizzazione dello stesso (vedasi Cass. Pen., Sez. VI, n° 9575/99). Infatti, si ricordi che il concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p. richiede un contributo causale, sia pure in termini minimi, di facilitazione della condotta delittuosa, mentre la semplice conoscenza o anche l'adesione morale, l'assistenza inerte e senza iniziative a tale condotta non danno luogo alla fattispecie concorsuale (a questo proposito Cass. Pen., Sez. IV, n° 3924/98).
 Sul tema del concorso della convivente nel delitto di detenzione illecita di sostanze stupefacenti nel domicilio comune, si era già espressa da anni la giurisprudenza della Suprema Corte che ha affermato il principio secondo cui deve essere escluso il concorso ex art. 110 c.p. in caso di semplice comportamento negativo di chi assiste passivamente alla perpetrazione del reato e non ne impedisce ed ostacola in vario modo l'esecuzione, dato che non sussiste in tale caso un obbligo giuridico di impedire l'evento (si veda Cass. Pen., Sez. VI, 22.12.1994, n° 12725). Ne consegue che “il solo comportamento omissivo, di mancata opposizione alla detenzione in casa di droga da parte di “altri”, tanto più se trattasi di persona legata da vincoli affettivi o strette relazioni personali, non costituisce segno univoco di partecipazione morale; ferma restando la regola, che, ai fini della configurazione del concorso nel reato di cui all'art. 73.1 D.P.R. n. 309 del 1990, è necessario e sufficiente che taluno partecipi all'altrui attività criminosa con la semplice volontà di adesione, che può manifestarsi in forme di agevolazione della detenzione anche solo assicurando all'altro “partner” (coniuge, figlio, parente, convivente) una relativa sicurezza, consistente nella consapevolezza dell'agente di apportare un contributo causale alla condotta altrui, già in atto ovvero nella disponibilità, anche implicitamente manifestata, di addurre, in caso di bisogno e di necessità, comunque una propria attiva collaborazione, per cui l'aiuto che in seguito dovesse essere prestato viene a rientrare nella fattispecie del concorso di persona nel reato e non nel favoreggiamento (Cass. Pen., Sez. IV, 9.5.1997, n° 4243).
 La Suprema Corte ha, dunque, escluso nel caso di specie la responsabilità della donna convivente in quanto si era limitata ad assistere in modo inerte, passivo alla realizzazione del reato da parte del proprio partner, annullando così la sentenza impugnata e rinviando per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Appello di Bologna.

 

 

 

Articolo dello Studio Legale Sbressa Agneni

Articolo pubblicato nella sezione " Persona e Danno "

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"Famiglia e Persone" UTET Giuridica

Scritto da AVV. SBRESSA AGNENI

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